L’alba di un tramonto

1508118_10202120108755677_2105820363_nPiazza Tienanmen, molti anni dopo. Un luogo denso di storia, un nome che evoca ben più di quanto indichi. Quasi la sua enorme fisicità fosse destinata ad essere immancabilmente trascesa, all’inafferrabilità delle sue proporzioni dovesse corrispondere un rimando semantico continuo. Uno spazio troppo esteso per incarnarsi in luogo vissuto che diviene naturalmente metafora.

Oggi è questa l’immagine che di Piazza Tienanmen ci giunge: una spianata di cemento avvolta da una spessa ed impenetrabile nube di smog, su cui non trionfa certo la giustizia proletaria, ma un enorme sole infuocato rinchiuso nella cornice beffarda di un maxischermo al quale i passanti – il volto sprofondato in una mascherina che sembra più che altro un bavaglio – non sembrano prestare troppa attenzione.

I colori accesi, fervidi, dell’immagine pixelata appaiono in contrasto netto con il grigiore circostante, ubiquo, che opprime la città e preme al suolo i suoi abitanti in una fetida prigione. Troppo netto perché questa infelice installazione possa essere interpretata esclusivamente come uno sfondo, un dettaglio. Le sue dimensioni, le sue fattezze non sono un semplice addolcimento imbellettante del paesaggio, né una seducente suggestione per subconsci digitalizzati. Esse obbligano lo sguardo, impongono una presenza totalizzante dell’immagine.

La trasformano in un feticcio, sostituto erotico del soggetto che rappresenta. Perché la presenza di quel sole, così esagerato, così acido, in questa Pechino, è la misura esatta della drammaticità della sua assenza. Di una perdita irrimediabile che grida all’istituzione di un simulacro e che al contempo piange della misera inadeguatezza di esso.

E l’immagine diventa simbolo.

Non sono i migliaia di fazzoletti rossi sventolati alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, campo di papaveri accarezzato dal vento della speranza in un mondo più giusto. Non è la camicia bianca, lisciata, dello sconosciuto rivoltoso, a ricordare al mondo la dignità indomabile dell’umano, la forza della sua impotenza che in un solo gesto annichilisce l’apparato. Non è il sangue degli studenti massacrati, che imporpora le strade e abbatte a colpi di cannone un sogno.

È la banalità sconcertante di una fotografia da cartolina a dominare una realtà che è diventata mero desktop di un folle industrialismo tecnocratico. A tentare, goffamente, di coprirne lo squallore e l’incolmabile desolazione. È il pacchiano cerotto che un modello sociale attacca sui brandelli della sua carne lacera, dilaniata da un mostruoso ibrido di capitalismo che ha stuprato e ammorbato la natura, ridotto in schiavitù un popolo, infestato attraverso il consumo l’immaginario collettivo, represso nel sangue ogni dissenso, ogni tentativo di aprire uno spiraglio.

Anche la possibilità di sognare si è annichilita. Anche dei sogni il capitale si è impossessato, dirottandoli lì, su quell’enorme schermo al plasma, deterritorializzandoli: dalla realtà, dallo scontro politico e dall’impegno sociale alla rappresentazione, all’immagine patinata. Nel teatro di una piazza che non è più agorà, luogo di incontro, di creazione, di movimento e azione, ma a sua volta palcoscenico di un luccicante spettacolo di marionette. È nei plastici contorni del desiderio, infatti, che oggi si gioca la partita del potere. Lì, qui, ovunque.

E il conflitto scompare. Identità o morte, l’unico grido possibile sotto una cappa di miasmi tossici. Testa bassa, camminare, lavorare. Di più, ancora di più. Per produrre più schermi su cui far scorrere con le dita più illusioni. Per inseguire un sogno imposto, un sogno individuale, il sogno della propria autodistruzione. Produrre fino a saturare il mondo, fino ad appestare l’aria. Finché non c’è più ossigeno per respirare. Finché l’unico sole di cui godere è quella fantasmatica opalescenza gelida.

Alba virtuale di un destino che attende ciascuno di noi. Che tra i grattacieli di Pechino appare solo più amaro, più scabroso, perché corrisponde al tramonto di ciò che la Cina è stata e avrebbe potuto essere, con la profondità inesauribile della sua antica civiltà, l’insondabile meraviglia della sua cultura, le utopie di cui la sua storia si è saputa intessere. Un destino che rimarrà tale finché le contraddizioni che soggiacciono al suo essere non si espliciteranno, non si trasformeranno in forze storiche, non (ri)cominceranno a lottare. Finché i passanti non fenderanno l’indifferenza e decideranno di scagliare pietre contro il velo di Maya di quello schermo, cogliendone la tremenda paradossalità. Finché ciascuno, nella catarsi liberatoria di un taglio di Fontana, non lacererà gli schermi delle proprie piazze, invocando, pretendendo, di poter guardare il cielo.

Ma l’orologio ticchetta. Il passo s’affretta. Albeggia, di già. Scricchiolano i cardini di fabbriche e uffici. Scusa, devo proprio andare. È l’alba di plastica dello stesso, unico, identico, giorno.

di Klopf

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