L’amuleto della felicità occidentale

504x672_645_Down_To_Silk_Diamond_portrait_girl_female_woman_african_face_photo_photography_digital_artRoma. È scattata ieri nella capitale un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per 34 persone, indagate per associazione di tipo mafioso, traffico di droga, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. Una rete criminale legata alla mafia nigeriana tesa a far giungere in Italia giovani donne e a costringerle a prostituirsi, dopo averle ridotte in schiavitù.

Nonostante rappresenti un racconto spesso destinato a scivolare in un battibaleno nel retroscena del teatrino mass-mediatico, quello della prostituzione nigeriana nei Paesi Occidentali è un fenomeno estremamente complesso. Nel 2011 erano circa 20.000 le donne nigeriane costrette a prostituirsi nella sola Italia – in particolare a Milano e Torino -, una cifra la cui esattezza non può che essere parziale data la difficoltà di stimare una realtà ai margini della legalità. Vengono principalmente da Edo, uno Stato rurale nel sud del paese, attraversato da una povertà estrema, che ospita solamente il 3% della popolazione ed in cui sono tutt’oggi profondamente radicate le credenze religiose tradizionali. Tra le baracche di lamiera della regione la fama delle “Italos”, le ragazze che in Italia hanno trovato lavoro e fortuna, penetra con facilità e diviene mito, modello di esistenza per molte adolescenti che guardano a questa possibilità come unica fonte realistica di un futuro migliore.

Alcune sanno che il lavoro consiste in prestazioni sessuali (pur senza immaginare le condizioni effettive dello sfruttamento), ma vengono ciononostante incentivate da genitori e fidanzati ad intraprendere il viaggio per guadagnare il denaro necessario ad imbastirsi una vita in proprio. A differenza di quanto avviene in altri paesi africani, la prostituzione femminile è in Nigeria tacitamente tollerata, dal momento che la donna è quotidianamente vittima di violenze e soprusi legittimati da una cultura e da una legislazione particolarmente discriminatorie. Una peculiarità che contribuisce a spiegare perché le schiave del sesso appartengano in larga maggioranza a questa nazionalità. Solamente se torna a casa senza una lira o sieropositiva, infatti, la donna viene stigmatizzata e ripudiata dalla sua famiglia.

Molte altre, tuttavia, non immaginano affatto cosa le aspetta. Pensano di trovare occupazione in Italia, con la prospettiva di tornare al loro paese in pochi mesi, non appena saldato il debito, per sposarsi, mettere su famiglia oppure aprire un piccolo esercizio commerciale. Cadono invece nella trama del traffico internazionale di esseri umani, il quale è articolato in tre tempi: inizialmente la ragazza viene individuata ed avvicinata nel paese d’origine da uno “sponsor” (un fidanzato, un fratello, un’amica) che le offre una prospettiva di vita migliore in Europa; successivamente la ragazza passa di mano in mano tra diversi mediatori e viene costretta a lunghe soste e periodi di prostituzione nei paesi dell’Africa sub-sahariana che attraversa; infine viene venduta nel paese di destinazione ad una “Madam” che si occuperà del suo addestramento e dell’organizzazione della sua vita quotidiana.

È quindi l’intera famiglia d’origine ad essere coinvolta nel patto di schiavitù, diventando strumento micidiale di ricatto e persuasione affinché la vittima rispetti gli accordi presi. La ragazza e i suoi parenti devono infatti firmare un atto formale, notarile, con cui si impegnano a saldare il debito contratto per il viaggio che, al momento dell’arrivo in Italia, si aggira già intorno ai 50.000 euro. Una cifra esorbitante e destinata ad aumentare progressivamente. Se la ragazza non racimolerà con le sue carni abbastanza denaro, sarà quindi la causa della rovina della propria famiglia.

Ma non è solo monetaria, la promessa iniziale. Il suo lato più inquietante, e più inchiodante, è il patto che la vittima stringe con le divinità tradizionali, all’interno di un rituale vudu nigeriano chiamato juju. Prima della partenza, infatti, uno stregone preleva dalla ragazza pezzetti di unghia, ciuffi di peli pubici e sangue e, dopo aver mescolato tutto in un sacchetto, minaccia di usarlo per farle del male in caso di mancato saldo del debito. Se a noi questa minaccia può sembrare ridicola, per le donne nigeriane essa costituisce un vincolo assoluto, incontrovertibile, che le obbliga più di qualsiasi catena di ferro a mantenere l’impegno preso per evitare che, in caso contrario, gli spiriti possano vendicarsi su di lei e sulla sua famiglia facendo loro capitare tutte le disgrazie possibili. Ecco perché, a differenza delle ragazze dell’Est che vengono costrette con pestaggi e violenze alla prostituzione, gli aguzzini delle nigeriane non devono ricorrere troppo di frequente alle mani, né mettere in atto un controllo retinico sul territorio. In una tenaglia di terrore e sottomissione, le ragazze si trovano strette tra le feroci e quotidiane angherie della Madam di turno ed un terrore atavico che impedisce loro di scappare e sottrarsi alla schiavitù.

Una volta giunte presso la città finale, inoltre, alle ragazze vengono sottratti i documenti, in modo da renderle definitivamente clandestine e disincentivarle a rivolgersi alle autorità in cerca di soccorso. L’unico loro riferimento rimane la Madam, una donna a sua volta di origine nigeriana, cardine dell’intera organizzazione, che le reclude in piccoli appartamenti privati e le costringe a 15 ore di lavoro quotidiano, sottoponendole pari tempo ad un sistema di controllo reciproco: il guadagno di ogni ragazza serve infatti a pagare il debito della donna più “anziana” (cioè che da più tempo si prostituisce), cosicché ciascuna diviene guardia e guardata delle altre.

All’interno del già drammatico universo della prostituzione, la situazione delle donne nigeriane è dunque particolarmente micidiale. Quale accoglienza trovano nel nostro paese? A dispetto della loro storia e della complessità insita in qualsiasi tentativo di soluzione di una dinamica a tal punto intrisa di rilievi psicologici,le nigeriane, se trovate dalle forze dell’ordine, vengono di norma rispedite a casa con aerei noleggiati per l’occasione, in rispetto degli accordi bilaterali Italia-Nigeria del 2002, e ammassate in un centro di detenzione temporanea situato a Lagos. Meglio per loro? No, perché sono ben poche le famiglie che verranno a reclamare le figlie disonorate che hanno causato la loro rovina, cosicché molto spesso alle ragazze non resta che rimanere in Nigeria a fare le prostitute in condizioni di miseria assoluta e di angoscia psicologica (si sono infatti sottratte al patto juju) o ricontattare i trafficanti e tornare in Italia, questa volta con un debito raddoppiato.

Un’eterna spirale che, per la mera soddisfazione escrementizia dell’eretto maschio italicus, mercifica il corpo della donna e ne sventra al contempo l’anima, identificata con un oggetto di tratta internazionale, proprio come il denaro, la droga, gli organi, le armi…Come le cose. Sarebbe il minimo pensare a questo, quando il piede preme sull’acceleratore nelle strade illuminate dai lampioni e un moto di sdegno, non di rado venato di razzismo, inarca le labbra.

di Klopf

Immagine: fotografia di Eric Don Arthur Chernorusski, Digital Art Gallery

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